Discriminazione sul lavoro contro omosessuali
16 Mar 2022
Avvocato dichiara di non voler assumere omosessuali: è discriminazione?
Con la causa C-507/2018 la Corte di Giustizia Europea è stata chiamata a pronunciarsi in ordine ad una dichiarazione resa da un avvocato, durante una trasmissione radiofonica. Secondo le dichiarazioni, l’avvocato riferiva di non volersi mai avvalere, nel proprio studio legale, della collaborazione di persone omossessuali.
Nella causa, la Corte, ha interpretato le norme della direttiva 2000/78 che vieta discriminazioni nell’accesso all’occupazione, operando un bilanciamento tra libertà di espressione e d’informazione, libertà professionale ed il diritto di lavorare ed il divieto di qualsiasi forma di discriminazione.
La parità di trattamento nell’occupazione
In Italia, la direttiva 2000/78 è stata attuata dal D.Lgs. n. 216/2003, che definisce il “principio di parità di trattamento” all’articolo 2, paragrafo 1, lettera a) come “l’assenza di qualsiasi discriminazione diretta o indiretta a causa della religione, delle convinzioni personali, degli handicap, dell’età o dell’orientamento sessuale”, dichiarando che esso “è suscettibile di tutela giurisdizionale” (art. 3).
La causa C-507/2018
La richiesta di risarcimento per le dichiarazioni di non volersi avvalere di omosessuali sul luogo di lavoro
La causa nasce dalla richiesta risarcitoria promossa da una associazione senza scopo di lucro contro l’avvocato omofobo. Il quale dichiarava di non volersi avvalere di collaboratori omosessuali presso il proprio studio. Condannato dal Tribunale di Bergamo, l’avvocato interponeva ricorso per Cassazione, che a propria rivolta rimetteva l’interpretazione della norma alla Corte di Giustizia Europea. Il quesito della Cassazione era se anche le dichiarazioni rese in una trasmissione radiofonica potessero rientrare nell’ambito applicativo della direttiva, che tutela la parità di trattamento nell’occupazione.
La corte Europea, richiamando i propri precedenti (CGUE, sentenza del 25 aprile 2013, Asociația Accept, C‑81/12), rispondeva affermativamente, ritenendo idonee a rientrare nel campo di applicazione della direttiva che vieta qualsivoglia forma di discriminazione nell’ambito di occupazione: anche le dichiarazioni pubbliche relative ad una determinata politica di assunzioni, effettuate malgrado che il sistema di assunzioni in questione non si fondi su un’offerta pubblica.
Inoltre la Corte sosteneva che fosse irrilevante che non vi fossero trattative specifiche in corso con soggetti (nel caso di specie) omosessuali, e che – invece – indicativo dovesse essere il fatto che il datore di lavoro non avesse chiaramente preso le distanze dalle dichiarazioni in questione.
Infatti, la percezione del pubblico o degli ambienti interessati, costituiscono elementi pertinenti di cui il giudice adito può tener conto nell’ambito di una valutazione globale dei fatti, purché ovviamente le dichiarazioni possano essere effettivamente ricondotte alla politica di assunzioni di un determinato datore di lavoro.
Dichiarazioni omofobiche e libertà di espressione
Anche se, indubbiamente, la libertà di espressione costituisce un diritto fondamentale garantito dall’articolo 11 della Carta Costituzionale italiana, dal successivo articolo 52, paragrafo 1, risulta che non è un diritto assoluto e il suo esercizio può incontrare delle limitazioni, a condizione che queste siano previste dalla legge e rispettino il contenuto essenziale di tale diritto nonché il principio di proporzionalità.
Tale situazione, sottolinea la Corte di Giustizia, sussiste nel caso italiano, in quanto vi sono limitazioni effettivamente previste dalla legge, nel rispetto sia del contenuto essenziale della libertà di espressione – si applicano unicamente al fine di raggiungere gli obiettivi della direttiva 2000/78, ossia garantire il principio della parità di trattamento in materia di occupazione e di lavoro e la realizzazione di un elevato livello di occupazione e di protezione sociale – sia del principio di proporzionalità.