Il diritto di essere dimenticato su internet: il diritto all’oblio

Il diritto di essere dimenticato su internet: il diritto all’oblio

02 Feb 2020
di Sara Cimadoro

Avvocato Busto Arsizio diritto all’oblio

Nell’era digitale, ciascun utente della rete può facilmente pubblicare notizie, foto, video, audio e, in generale, contenuti digitali che si riferiscono sia all’utente stesso che a terzi soggetti. Può capitare che tali contenuti vengano successivamente ritenuti pregiudizievoli per la reputazione del diretto interessato, oltre che lesivi della sua privacy.

A titolo esemplificativo, qualcuno (generalmente un giornale online) può aver pubblicato su un sito internet un articolo nel quale si riferisce di una condanna penale comminata ad una persona, ovvero di una condanna civile di risarcimento danni, o un pignoramento iniziato nei confronti di qualche soggetto. Inoltre, può verificarsi che vengano pubblicati online contenuti multimediali (video, foto, ecc.) suscettibili di dare un’immagine distorta o non più attuale del soggetto cui si riferiscono. Tali dati e notizie, una volta pubblicati online, possono diventare facilmente reperibili da chiunque acceda alla rete, nella misura in cui i predetti contenuti siano rintracciabili e raggiungibili attraverso i classici motori di ricerca (es. “Google”).

Ebbene, in queste ipotesi il diretto interessato, onde evitare che notizie ritenute pregiudizievoli ed offensive continuino ad essere di pubblico dominio, può ottenere la rimozione dai motori di ricerca di tutti i link e riferimenti che rimandano ai contenuti online in questione, invocando il cd. “diritto all’oblio”.

Il diritto all’oblio

Il diritto all’oblio è il diritto di ciascun soggetto ad essere “dimenticato”.

Esso si attua, in concreto, mediante la rimozione di tutti quei link e riferimenti che rimandano ad un contenuto online ritenuto lesivo.

Come accennato, infatti, una notizia o contenuto multimediale presente online diventa facilmente raggiungibile da chiunque acceda ad internet, nel momento in cui tali contenuti risultino visibili mediante i link che compaiono a seguito di una ricerca effettuata online (sempre a titolo esemplificativo, ricerca tramite “Google”).

Siffatto meccanismo, in informatica, è chiamato “indicizzazione” e consente il facile reperimento e raggiungimento di pagine o siti internet presenti nelle banche dati dei motori di ricerca online: è sufficiente inserire alcune parole chiave nell’apposito canale di ricerca affinché tra i risultati compaiano i “link” a siti internet e, di conseguenza, ad articoli o contenuti multimediali.

 

Viceversa, il meccanismo che consente la rimozione di tali link dai motori di ricerca e, di conseguenza, l’impossibilità di trovare agevolmente certi contenuti presenti in rete, è definito “deindicizzazione”.

 

Tecnicamente, pertanto, è la cd “deindicizzazione” che consente l’attuazione del diritto all’oblio. è bene sottolineare, tuttavia, che la deindicizzazione non equivale ad eliminazione della notizia, dato o contenuto multimediale pregiudizievole dell’interessato a cui quelle informazioni si riferiscono:

 

per eliminare definitivamente un contenuto ritenuto lesivo della propria persona, occorrerà rivolgersi direttamente al titolare del trattamento ovvero al responsabile del trattamento di quel dato e chiederne la cancellazione dal proprio sito internet.

 

Il diritto all’oblio è oggi disciplinato dall’art. 17 del GDPR (Regolamento Generale sulla protezione dei dati personali), che introduce espressamente il “diritto alla cancellazione”, ma è un diritto di creazione prettamente giurisprudenziale.

 

Esso ha avuto notevole impatto a seguito della nota Sentenza della Corte di Giustizia Ue del 2014 (v. Corte Giustizia Europea, C-131/12 del 13 maggio 2014), con la quale la Corte ha condannato Google alla deindicizzazione di alcuni siti internet che riportavano notizie lesive della sfera privata e della dignità di un cittadino europeo di origine spagnola.

In Italia vi sono state negli ultimi anni diverse sentenze (cfr. Trib. Roma, n. 23771/2015), anche della Suprema Corte (cfr per tutte Cass. Civ., n. 13161/16), che hanno espressamente riconosciuto tale diritto, nonché diverse pronunce favorevoli dello stesso Garante della Privacy italiano. Di particolare interesse una delle ultime pronunce dell’Autorità (v. Provvedimento del 21 dicembre 2017 n. 557 del Garante Privacy), con la quale è stato condannato Google a deindicizzare link non soltanto europei ma anche extra UE, riconoscendo così all’interessato tutela effettiva anche al di fuori dei confini UE.

Si ritiene quindi possa essere esercitato solo dopo la richiesta, avuta risposta negativa, di rimozione dei contenuti.

Come procedere per la richiesta di rimozione di contenuti?

La richiesta di deindicizzazione va rivolta direttamente a Google o ad altro titolare del motore di ricerca da cui si vogliono eliminare i link in questione.

Google ha messo a disposizione un modulo online attraverso cui indicare in particolare un indirizzo mail di contatto, il link che s’intende eliminare, la motivazione, e la copia di un documento d’identità del richiedente. Ricevuta la richiesta di deindicizzazione, Google deve obbligatoriamente “lavorarla” ed in tempi brevi.

 

La giurisprudenza ritiene debbano sussistere alcune condizioni affinché il destinatario della richiesta di deindicizzazione possa procedere:

  • a) bilanciamento tra il diritto (privato) alla reputazione e riservatezza con il diritto di cronaca e l’interesse (pubblico) alla conoscenza di certe informazioni, connesse in special modo con il ruolo ricoperto da tale persona nella vita pubblica (cfr. Corte Giustizia Europea, C-131/12 del 13 maggio 2014);
  • b) il o i link di cui si chiede la rimozione devono avere ad oggetto notizie o contenuti risalenti nel tempo. La giurisprudenza non indica un margine di tempo affinché un dato possa definirsi risalente nel tempo, per cui il rispetto di tale condizione appare rimessa alla discrezionalità della società che gestisce i motori di ricerca, e, in caso di attivazione del rimedio giurisdizionale, all’interpretazione del giudice.

 

Nel caso in cui il destinatario della richiesta di cancellazione rimanga inadempiente, l’interessato può rivolgersi direttamente al Garante della Privacy o all’Autorità Giudiziaria (conf. ancora Trib. Roma, n. 23771/2015).

 

È bene chiarire che, per ottenere una piena tutela dei propri diritti, nel caso in cui i dati personali inesatti o non più attuali siano contenuti in un articolo pubblicato su una pagina web, l’istanza dovrà essere indirizzata sia al titolare, o al responsabile del trattamento dati, del gestore della pagina web, che al titolare, o al responsabile del trattamento dati, del gestore del motore di ricerca.

Infatti, solo il primo, che ha la piena gestione del sito su cui è pubblicata la notizia, potrà rimuovere completamente dal web la notizia inesatta; il secondo, invece, potrà intervenire soltanto rimuovendo dai risultati di ricerca il link che rimanda alla relativa pagina web.

 

Il reclamo al Garante

Ad ogni modo, se l’istante non ha ricevuto alcun riscontro dal titolare o dal responsabile del trattamento dei dati nei termini stabiliti dall’art. 12, par. 3, del Regolamento 2016/679/UE, ovvero, ritenga non soddisfacente la risposta ricevuta, potrà rivolgersi con ricorso all’autorità giudiziaria oppure presentare un reclamo all’autorità Garante per la Privacy ai sensi dell’art. 77 del Regolamento 2016/679/UE e degli artt. da 140 bis a 143 del D.lgs. 196/2003, cosiddetto Codice della Privacy.

Il ricorso ed il reclamo sono mezzi di tutela alternativi: il reclamo al Garante non può essere proposto se, per il medesimo oggetto e tra le stesse parti, è stata già adita l’autorità giudiziaria e, viceversa, la presentazione del reclamo al Garante rende improponibile un’analoga azione dinanzi all’autorità giudiziaria, ad eccezione del caso in cui abbia dato mandato di agire per suo conto ad una associazione senza scopo di lucro attiva nel settore della tutela dei diritti e delle libertà degli interessati con riguardo alla protezione dei dati personali.

Modalità di presentazione

La presentazione del reclamo è gratuita e potrà essere curata direttamente dall’interessato ovvero, per suo conto, da un avvocato, un procuratore, un organismo, un’organizzazione o un’associazione senza scopo di lucro, a cui abbia conferito apposita procura secondo le disposizioni previste dal codice di procedura civile.

Il reclamo, secondo quanto stabilito dall’art. 142 del Codice della Privacy, recentemente modificato dal D.lgs. 101/2018, dovrà contenere un’indicazione per quanto possibile dettagliata dei fatti della vicenda denunciata, delle disposizioni normative che si presumono violate e delle misure richieste, nonché gli estremi identificativi del titolare o del responsabile del trattamento, ove conosciuto.

Laddove l’interessato non lo abbia già fatto, il Garante entro quarantacinque giorni dalla ricezione del reclamo, invita l’istante a rivolgersi comunque preliminarmente al titolare del trattamento, onde consentire un’adesione spontanea alle richieste dell’interessato.

 

All’istruttoria preliminare, segue poi il procedimento amministrativo formale, nel quale è instaurato un contraddittorio con il titolare o responsabile del trattamento.

Il procedimento viene definito dal Garante con l’adozione dei provvedimenti correttivi di cui all’art. 58, paragrafo 2, del Regolamento 2016/679/UE, nonché con l’irrogazione di una delle sanzioni amministrative di cui all’articolo 83 del medesimo Regolamento e di cui ai commi 1 e 2 dell’art. 166 del Codice della Privacy.

Il provvedimento emesso dal Garante è impugnabile con ricorso all’autorità giudiziaria ai sensi dell’art. 78 del Regolamento 2016/679/UE e art. 152 del Codice della Privacy.

 

Il ricorso all’autorità giudiziaria

Nel caso, invece, in cui l’interessato intenda tutelare i suoi diritti per via giudiziaria, dovrà presentare un ricorso all’autorità giudiziaria ordinaria secondo quanto stabilito dall’art. 79 del GDPR e dall’art. 152 del Codice della Privacy.

La competenza spetta, in via alternativa, al tribunale del luogo in cui il titolare del trattamento risiede o ha sede, ovvero, il tribunale del luogo di residenza dell’interessato. Ai sensi dell’art. 10 del D.lgs. n. 150/2011, le controversie previste dall’articolo 152 del Codice della Privacy sono regolate dal rito del lavoro.

Aspetto peculiare della procedura è la comunicazione al Garante della Privacy della pendenza della controversia e la trasmissione della copia degli atti introduttivi. Ciò è previsto al fine di consentire all’autorità di controllo l’eventuale presentazione di osservazioni, da rendere per iscritto o in udienza, sulla controversia in corso con riferimento ai profili relativi alla protezione dei dati personali.

La sentenza che definisce il giudizio non è appellabile, può disporre anche la revoca o modifica di un atto amministrativo, senza che sia necessario il successivo ricorso alle competenti Autorità amministrative e può, infine, disporre in merito al risarcimento del danno spettante all’istante quale conseguenza dell’illecito trattamento dei suoi dati personali.

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