L’utilizzo del bene in comunione
05 Gen 2017
Tizio e Caia sono proprietari di fonfi confinanti; sorge fra loro una controversia relativa
all’accesso e all’utilizzo di un pozzo costruito su un fondo in comproprietà.
La comproprietà di un bene, ex art. 1100 c.c., da vita ad un regime di comunione del bene stesso.
Anche in questo caso, il codice civile prevede che, qualora il titolo o la legge non dispongano diversamente, si applichino le norme ivi previste.
Il titolo, nel caso in oggetto, va riferito nuovamente al contratto di compravendita: “Si annota che gli immobili suddescritti hanno diritto di comproprietà del mappale (…) di mq 5 riportato in catasto (…) come particella comune a più fabbricati”.
La presunzione ex lege che se ne ricava è che (art. 1101 c.c.) le quote di partecipazione alla comunione siano tutte uguali: tutti i comproprietari dovranno distribuirsi equamente le spese e godere equamente dei vantaggi.
Si consideri che ex artt. 1105 e ss c.c. tutte le decisioni riguardo la manutenzione della cosa comune saranno prese a maggioranza (ordinaria amministrazione), mentre le decisioni sulle migliorie e le innovazioni (finalizzate al miglior godimento della cosa) possono essere prese a maggioranza dei due terzi dei comproprietari.
Nella fattispecie in esame occorre richiamare l’art. 1102 del c.c.: “ciascun partecipante può servirsi della cosa comune, purchè non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto”.
Dunque il comportamento del comproprietario che si attivi per utilizzare anche intensamente la cosa comune non è di per sé stesso censurabile, occorrerà invece che vi sia il tentativo
– di modificare la destinazione della cosa comune, o
– di impedirne l’uso da parte degli altri in analoga misura
“L’art. 1102 c.c., pur consentendo ad un comproprietario l’utilizzazione della cosa comune anche in un modo particolare e più intenso rispetto alla generalità dei comproprietari, pone tuttavia il divieto di alterare la destinazione della cosa e di impedire agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto ed esclude che l’utilizzo del singolo possa risolversi in una compressione quantitativa o qualitativa di quello, attuale o potenziale, di tutti i comproprietari” (Cassazione civile , sez. II, 30 marzo 2009 , n. 7637)
Il codice non specifica quale siano in concreto i comportamenti lesivi e abusivi, questi andranno dunque ricercati concretamente nel comportamento tenuto dal comproprietario: “Le limitazioni poste dall’art. 1102 c.c. al diritto di ciascun partecipante alla comunione di servirsi della cosa comune, rappresentate dal divieto di alterare la destinazione della cosa stessa e di impedire agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto, vanno riguardate in concreto, cioè con riferimento alla effettiva utilizzazione che il condomino intende farne e alle modalità di tale utilizzazione, essendo, in ogni caso, vietato al singolo condomino di attrarre la cosa comune o una parte di essa nell’orbita della propria disponibilità esclusiva e di sottrarla in tal modo alla possibilità di godimento degli altri condomini”( Cassazione civile , sez. II, 28 aprile 2004 , n. 8119). (Sentenza resa in tema di condominio, al quale sono applicabili le norme sulla comunione in quanto species del medesimo genus)
Dunque, qualora vi fossero degli atteggiamenti atti a limitare il godimento della cosa comune, ci troveremmo dinnanzi ad una turbativa del possesso, contro la quale il comproprietario si potrà avvalere della tutela possessoria, esercitata attraverso un’azione di manutenzione.
Per inciso, in tale giudizio, il comproprietario dovrà necessariamente chiamare tutti gli altri comproprietari (litisconsorzio necessario).
E’ ammessa inoltre, dinnanzi a suddetta turbativa, una tutela risarcitoria: “L’ostacolo al diretto godimento della cosa comune da parte di uno dei comproprietari frapposto dagli altri non richiede di necessità un formale rifiuto in risposta ad una identica richiesta bensì può risultare, oltre che da espresse manifestazioni di volontà, anche da comportamenti al fine equivalenti da apprezzare in relazione alle condizioni oggettive del bene comune ed ai rapporti personali tra i diversi comproprietari. Tale ostacolo fa sorgere, a carico di chi lo ponga in essere, l’obbligo di prestazione risarcitoria sostitutiva del godimento non fruito”. Cassazione civile , sez. II, 10 gennaio 1983 , n. 176
La tutela possessoria, esperibile in entrambe le fattispecie analizzate e regolata dagli artt. 703 e ss. c.p.c., gode della maggiore celerità garantita dall’art. 669 bis c.p.c.
E’ importante considerare i termini per l’esperibilità delle azioni possessorie, regolate dagli artt. 1168 e seguenti del c.c. (azioni a difesa del possesso).
Quando lo spoglio del possesso è violento o occulto, il termine per proporre domanda è un anno dal sofferto spoglio. Si consideri che il concetto di violenza non si limita alla violenza materiale: “non deve necessariamente consistere in un’attività materiale, essendo sufficiente ad integrarla un qualsiasi comportamento che produca la privazione totale o parziale del possesso (o del compossesso) contro la volontà espressa od anche solo presunta del possessore” Cassazione civile, sez. II, 13 febbraio 1987 , n. 1577. E ancora: “infatti il requisito della violenza non deve necessariamente consistere in una attività materiale, essendo sufficiente un comportamento finalizzato a togliere il possesso o ad impedirne l’esercizio contro la volontà del possessore (o del detentore qualificato)”. Cassazione civile , sez. III, 06 settembre 1995 , n. 9381.
Quando è clandestino, l’anno decorre dalla scoperta dello spoglio (art. 1168 comma 3). Lo spoglio è clandestino quando gli atti posti in essere al fine di spogliare il possessore sono ignorati dallo stesso.
Tuttavia, più attinente al caso in esame, è la previsione ex art. 1170 c.c.: qualora non si fosse verificato propriamente lo spoglio, ma si ricadesse piuttosto in una situazione di turbativa, il codice pone ugualmente il termine di un anno per agire giudizialmente con la già descritta azione di manutenzione.
Condizione necessaria per l’esperimento dell’azione è che il possesso duri da oltre un anno, continuo e non interrotto.
I termini anzidetti sono perentori e l’onere probatorio, eventualmente, è in capo all’attore: “Il termine di un anno previsto dall’art. 1168 c.c. per l’utile esperimento dell’azione di reintegrazione – decorrente dal sofferto spoglio o, se questo è clandestino, dalla scoperta dello spoglio – è un termine perentorio che, in quanto tale, deve essere osservato a pena di decadenza; ne consegue che la tempestività costituisce un presupposto necessario dell’esercizio dell’azione il quale, se posto in discussione con l’eccezione di decadenza, deve essere provato dall’attore”. Corte appello Reggio Calabria, 12 aprile 2007.