Il riconoscimento del figlio: titolarità del diritto e rifiuto

Il riconoscimento del figlio: titolarità del diritto e rifiuto

05 Gen 2017

Fra Tizio e Caia è intercorsa una relazione sentimentale. Caia è ora in stato di gravidanza: quali saranno i modi per addivenire ad un eventuale riconoscimento del figlio per Tizio? E quali gli eventuali diritti e doveri, anche in caso di disaccordo fra i presunti genitori?

Gli automatismi di riconoscimento del figlio sono differenti, a seconda che questo sia stato o meno concepito durante il matrimonio.

Ne deriva anzitutto una presunzione ex lege, secondo la quale (art. 232 c.c.) il figlio concepito durante il matrimonio è riconosciuto senza formalità, tant’è che il padre sarà onerato, in caso di disconoscimento, della prova tendente ad escludere la paternità. Peraltro, tale azione sarà possibile solo a determinate condizioni oggettive, che possano far presumere il c.d. fumus boni iuris a favore del padre: i coniugi non hanno coabitato, il marito era impotente, la moglie era adultera (art. 235 c.c.)

Tuttavia il legislatore ha regolato anche l’ipotesi radicalmente opposta, in cui il padre non possa essere presunto da oggettive condizioni di fatto: in questi casi spetterà ai diversi soggetti procedere al riconoscimento.

Se il concepimento avviene al di fuori del matrimonio, vi possono essere sostanzialmente due vie per addivenire al riconoscimento del figlio: il padre può riconoscere il figlio attraverso un atto di riconoscimento, oppure il riconoscimento è decretato giudizialmente su impulso della madre o del figlio, qualora questo fosse maggiorenne (se minorenne, può esercitare l’azione il tutore su autorizzazione del giudice), ex artt. 269 e ss. c.c.

Nel primo caso, il genitore compie un atto unilaterale non recettizio, che la dottrina considera personalissimo: ne consegue che non può esservi nessuna forma di rappresentanza.

Il riconoscimento volontario può, ex art 254 c.c., essere effettuato anche prima della nascita.

Il riconoscimento può essere fatto in varie forme: può consistere in una dichiarazione scritta e sottoscritta dal genitore (fatta dopo la nascita o dopo il riconoscimento), può consistere in una dichiarazione fatta dinnanzi ad un ufficiale dello Stato Civile e può essere anche contenuta in un testamento.

Proprio la natura personalissima giustifica il fatto che può essere compiuto indipendentemente dalla volontà dell’altro genitore e il fatto che eventuali vizi afferenti la dichiarazione di riconoscimento di un genitore non travolgono gli effetti dell’altra.

Chi vi ha interesse può impugnare la dichiarazione per difetto di veridicità; il c.c. (art. 263) è chiaro nell’attribuire la titolarità dell’azione a chiunque vi abbia interesse.

Se il figlio ha già compiuto i sedici anni, è necessario il suo assenso al riconoscimento. Questa disposizione evidenzia come, comunque, l’interesse da perseguire sia quello del figlio. L’assegnazione del cognome è regolata dall’art 262 c.c.

Posto che in caso di riconoscimento congiunto il figlio porterà il cognome del padre, se fosse solo la madre a riconoscerlo, il padre potrebbe successivamente riconoscere il figlio chiedendo che venga sostituito il cognome della madre col suo, oppure che venga aggiunto.

Questo meccanismo non è però operante ex lege: è stato stabilito che, ove la filiazione nei confronti del padre sia stata accertata o riconosciuta successivamente al riconoscimento da parte della madre, non scatta più automaticamente il patronimico, ma può prevalere l’esigenza di conservare il cognome materno.

Quando il figlio è minorenne, la decisione sul cognome spetta all’autorità giudiziaria che, come visto, compirà delle valutazioni in ordine all’interesse del minore. La Corte Costituzionale è intervenuta dichiarando l’illegittimità dell’ultimo comma art 262 c.c. nella parte in cui non prevede che, a seguito della sostituzione operata dal giudice, il figlio possa comunque mantenere anteponendolo o aggiungendolo (a sua scelta) il cognome della madre, qualora sia divenuto autonomo segno distintivo.(Corte Cost. sent. n. 297/96)

Qualora il genitore non volesse riconoscere il figlio, agli interessati è, come anticipato, garantito il diritto di vedere riconosciuta la genitorialità attraverso l’esperimento dell’azione di riconoscimento giudiziale.  All’azione sono legittimati: il figlio naturale maggiore d’età; il genitore che esercita la potestà; il tutore del figlio minorenne, previa autorizzazione del giudice.

Nel caso in cui il minore abbia compiuto i sedici anni è necessario il suo consenso per promuovere o proseguire l’azione (art. 270 e 273 c.c.); possono promuovere l’azione anche i discendenti legittimi, legittimati o naturali riconosciuti del figlio, se questi muoia prima di aver iniziato l’azione.

Il procedimento, prima di essere instaurato, doveva essere oggetto di un preventivo giudizio di ammissibilità; tale giudizio era stato già modificato nel 1975, con la riforma del diritto di famiglia, ma residuava comunque, ex art 274 c.c., “un grave ostacolo all’esercizio del diritto di azione garantito dall’art. 24 Cost., e ciò per giunta in relazione ad azione volte alla tutela di diritti fondamentali, attinenti allo status ed all’identità biologica; così, come da tale manifesta irragionevolezza discende la violazione del precetto (art. 111, secondo comma. Cost.) sulla ragionevole durata del processo, gravato di un’autonoma fase, articolata in più gradi di giudizio, prodromica al giudizio di merito, e tuttavia priva di qualsiasi funzione. Né può tacersi che l’evoluzione della tecnica consente ormai di pervenire alla decisione di merito, in termini di pressoché assoluta certezza, in tempi estremamente concentrati”. Così la Corte Costituzionale ha definitivamente censurato l’art 274 c.c. (sentenza n. 50 del 2006) per violazione degli articoli 3, comma secondo, 24 e 111 della Costituzione. Oggi non è dunque necessario alcun giudizio di ammissibilità dell’azione.

La prova, instaurato il giudizio, può essere raggiunta in qualsiasi modo e sono ammessi a fondamento della decisione del giudice anche elementi presuntivi, purchè caratterizzati da gravità, univocità e concordanza e che le argomentazioni giustificative del convincimento siano immuni da incoerenze logiche e da omissioni su elementi decisivi.

Fondamentale è stata, negli anni, la valutazione di elementi di carattere scientifico ed in particolare del c.d. test del DNA

La Corte di Cassazione è diverse volte intervenuta in merito all’utilizzabilità di questo mezzo di prova, affermando che il test del DNA può fornire elementi ormai affidabili : “sia per escludere che per affermare il rapporto biologico di paternità, non rilevando il carattere probabilistico delle risultanze di tali indagini, comune a tutte le asserzioni delle scienze fisiche e naturalistiche, cui è sempre imminente la possibilità di errore”(sez.I civile, n.13665 del 22 luglio 2004)

Il test del DNA assume significato anche in negativo, poichè “il rifiuto ingiustificato di sottoporsi ad indagini ematologiche costituisce un comportamento valutabile da parte del giudice ai sensi dell’articolo 116, secondo comma, cod. proc. civ.” poichè ”coniugando il contenuto degli elementi raccolti, si ottiene un risultato di gravità e concordanza degli indizi raccolti in ordine alla paternità in discussione”. (Corte Cass. n. 10051/08)

Fondamentale è il fatto che con la sentenza che dichiara la filiazione naturale si producono gli effetti del riconoscimento e in capo al genitore ne scaturiscono tutti i doveri e i diritti connessi con la filiazione.

Il codice, equiparando la dichiarazione giudiziale al riconoscimento volontario, stabilisce che la portata della sentenza è tale per cui il figlio otterrà lo status di figlio naturale.

Ne derivano tutti i diritti e obblighi di legge, poiché al genitore sarà data la facoltà di partecipare alla sua vita e alla sua formazione, sarà sua facoltà vederlo e sarà sua facoltà (e obbligo) partecipare alla sua istruzione.

Fra gli obblighi di legge, assume particolare valore quello del mantenimento. L’an non è dunque più in discussione, una volta ottenuto (anche giudizialmente) il riconoscimento del figlio. Relativamente al quantum, si sottolinea che: “la determinazione dell’assegno di mantenimento a favore del figlio minore, le buone risorse economiche dell’obbligato hanno rilievo non soltanto nel rapporto proporzionale con il contributo dovuto all’altro genitore, ma anche in funzione diretta di un più ampio soddisfacimento delle esigenze del figlio, posto che i bisogni, le abitudini, le legittime aspirazioni di questo e in genere le sue prospettive di vita, non potranno non risentire del livello economico sociale in cui si colloca la figura del genitore” (Cass. Civ. Sez. I n. 7644 del 13.07.1995).

Ulteriore fondamentale conseguenza del riconoscimento è che tale atto comporta l’assunzione di tutti gli obblighi propri della procreazione legittima a prescindere dalla circostanza che i genitori siano conviventi o dalle vicissitudini dei rapporti personali tra gli stessi. Ne consegue che “nell’ipotesi in cui al mantenimento abbia provveduto, integralmente o comunque al di là delle proprie sostanze, uno soltanto dei genitori, a lui spetta il diritto di agire in regresso, per il recupero della quota del genitore inadempiente, secondo le regole generali del rapporto tra condebitori solidali” (Cass. Civ. Sez. I, n. 15063 del 22.11.2000).

Si applica dunque il dettato dell’art 1299 c.c., secondo il quale, in presenza di più condebitori, il prevede il regresso quando l’obbligazione sia stata adempiuta da uno solo di essi.

Il diritto al mantenimento, avendo oggetto più ampio del semplice diritto agli alimenti, sorge in capo al figlio fin dalla nascita e prescinde dallo stato di bisogno di quest’ultimo.

A prescindere dalle questioni civilistiche, nel caso di mancata somministrazione dei mezzi di sussistenza da parte del genitore, questo potrà anche incorrere nel reato previsto dall’articolo 570 del codice penale, per violazione degli obblighi di assistenza familiare.